Inizio a scrivere questa storia. Non so dove mi porterà e come finirà, ma il bisogno di raccontarla è una fiamma costantemente accesa dentro di me, ormai da moltissimi mesi.
Ho avuto un bambino a luglio 2020, in piena pandemia, in ospedale. In questo racconto c’è anche della violenza ostetrica, quindi se l’argomento per voi è troppo duro, vi consiglio di non leggerla, o magari di farlo in un momento in cui vi sentite al sicuro.
Le ultime settimane di gravidanza, nonostante la fatica di un corpo abitato da un altro essere umano piuttosto ingombrante, sono state serene. Ho potuto, dopo mesi di pandemia, vedere persone, passeggiare per le strade, sentire le mani dell’ostetrica Elena (la libera professionista dolcissima e preparata che mi ha seguita, per mia scelta) sulla mia pancia. Dario, il papà, tutte le sere mi massaggiava la pancia con l’olio di lavanda e mi scuoteva i fianchi con un drappo di stoffa, secondo la tradizione messicana del rebozo, per incanalare meglio il bambino.
Sono arrivata al parto consapevole e relativamente serena, dopo aver letto libri e seguito corsi di preparazione al parto, e con tre pensieri, come amuleti, da richiamare nei momenti di difficoltà. Li scrivo qui perché, nonostante la vicenda che segue sia tutt’altro che semplice e lineare, mi sono davvero serviti nel momento del bisogno, e magari possono essere utili a qualcun altro:
- Quando partoriamo mettiamo in gioco risorse che non sapevamo di avere. È normale quindi, che nel resto del tempo ci sembri un evento inaffrontabile, ma in quel momento avremo accesso a risorse e parti di noi che normalmente restano sopite
- Durante il parto, la madre non è mai sola, è con il proprio bambino. La nascita è una cosa che si fa insieme, un gioco di squadra
- I bimbi sanno nascere, le madri sanno partorire. Abbiamo il software preinstallato nella nostra natura biologica, il nostro corpo sa cosa fare e lo fa da centinaia di migliaia di anni
La mattina del 10 luglio, giorno in cui è nato Lucio, sono andata dal meccanico a ritirare la mia macchina, provata da mesi di immobilità causa pandemia. L’ho guidata fino a casa e parcheggiata, al primo colpo. Ero a 38 settimane di gravidanza e un giorno. Nel primo pomeriggio, improvvisamente, come nei film, mi si sono rotte le acque. Nonostante il repertorio cinematografico sembri dimostrare il contrario, in realtà pochi travagli iniziano davvero così, eppure a me è capitato. Ho telefonato al centro nascita ostetrico dell’ospedale Sant’Anna che mi aveva presa in carico. L’avevo scelto perché si tratta di una struttura, seppur all’interno dell’ospedale, che dovrebbe garantire una nascita rispettata, empatica, attenta alla madre e al bambino. Al telefono mi hanno chiesto di che colore fosse il liquido amniotico e lì purtroppo sono cominciati i problemi. Il liquido era giallino. In termine tecnico, come avrei imparato dopo, tinto. Anche se non avevo ancora contrazioni, mi è stato detto di recermi in ospedale. All’accettazione, dopo la misurazione della temperatura e la compilazione del modulo anti Covid, l’addetta mi chiesto “quando nasce?” “tra poche ore, credo” “ah non si direbbe, non ha la faccia di una che sta per partorire”.
Mentre entravo ero piuttosto serena. Ricordo di aver scattato un selfie nello specchio dell’ascensore: i moduli in mano, una maglietta rosa e gli unici pantaloni che mi entravano ancora. La mia ultima foto con la pancia. Una volta dentro, un’ostetrica del centro nascita, con gentilezza, mi ha visitata, confermando le ipotesi: liquido amniotico tinto. Mi ha spiegato dolcemente, senza allarmarmi troppo, che è un sintomo che il feto potrebbe essere in sofferenza, ma non è detto. È importante però monitorarlo spesso e con attenzione. Ha fatto passare sulla mia pancia due cinghie con dei sensori, per monitorare le contrazioni e il battito cardiaco. Il piccolo stava bene, il cuore batteva stabile. Non avevo ancora contrazioni, ma iniziavo a sentire un dolore simile a quello che si sperimenta, a volte, durante le mestruazioni. Il centro nascita, però, non poteva tenermi. Le regole dell’ospedale prevedono che qualsiasi deviazione dalla totale fisiologia del parto provochi il ricovero nei reparti dell’ospedale vero e proprio. Così, inconsapevole, ho seguito la donna gentile attraverso corridoi che, durante quelle due/tre visite di controllo che le procedure anti-Covid mi avevano concesso, non avevo mai visto. Ho compilato altri moduli. Mi hanno fatto il tampone, che all’epoca era una procedura ancora piuttosto rara e si svolgeva nel naso e in gola. Ricordo che prima di trovarmi in quella situazione, ne avevo avuto paura, ma in quel momento non ci ho pensato poi molto.
Nel giro di poco tempo, in attesa in un atrio grigio e sconosciuto, ho iniziato a sentire un formicolio di paura negli arti, e ho realizzato: Dario non sarebbe stato con me. Il reparto aveva regole ferree, ancor più di quelle del centro nascita. Inoltre, in origine, avevo programmato di passare buona parte del travaglio a casa, per raggiungere l’ospedale solo quando la fase espulsiva (l’unica in cui, all’epoca, i padri erano tendenzialmente ammessi) sarebbe stata molto vicina. Un intero travaglio. Lì. Da sola. Dario è salito a lasciarmi la borsa, ci siamo salutati nel corridoio. Non ho pianto. Ho chiamato mia madre, l’ho tranquillizzata. Temevo che se avessi dato voce alla mia paura sarei crollata.
Sono entrata e mi hanno sistemata in stanza con una donna che aveva già partorito. Aveva due gemelli prematuri e dopo pochi minuti è andata al nido per tirarsi il latte da somministrare loro. A quel punto, sono stata chiamata e portata in una stanza dove avrebbero di nuovo monitorato il battito del bambino e le mie contrazioni. In quel momento, seduta sulla sedia accanto al macchinario per il tracciato, ho sentito il terrore invadermi di nuovo. Era una paura fredda, totalizzante, molto simile a quella delle crisi di panico di cui avevo sofferto intorno ai 20 anni. Avrei potuto crollare, forse. Per un attimo ho immaginato di farlo. Cosa sarebbe successo? Mi avrebbero sedata? Sarebbe finito tutto in un cesareo? Poi ho detto a me stessa qualcosa tipo “però no, cazzo. Proviamoci almeno”, e ho recuperato dalla memoria le formule imparate molti anni prima durante le sedute di training autogeno. “Il mio corpo è pesante”, mi ripetevo, mentre richiamavo alla coscienza le dita delle mani, le braccia, i piedi, e lentamente sentivo che forse sì, era possibile stare in quella situazione senza crollare. Immagino che fosse quella, la forza enunciata dal primo dei miei tre mantra. Quella che viene fuori solo nelle situazioni eccezionali.
Dopo un po’ sono arrivate due ragazze molto giovani, immagino due praticanti universitarie, con un foglio da firmare. “Dobbiamo farle un’induzione signora, per velocizzare il travaglio, con il liquido tinto questa è la prassi. Deve firmare qui”. Nella mia mente la parola induzione si accompagnava a racconti di dolore lancinante e inutile, e non ero convinta avesse senso propormela, visto che iniziavo finalmente a sentire delle contrazioni. “È per il bene del suo bambino signora. Se rifiuta lo fa a suo rischio e pericolo”. Ho chiesto del tempo per pensarci e ho telefonato a Elena, la mia ostetrica.
“Hai delle contrazioni” mi ha detto, percependolo dalle variazioni nel suono della mia voce “e sono regolari”.
“Sì ma cosa faccio, accetto l’induzione con le prostaglandine?” le ho chiesto.
“Se vuoi sì”, mi ha risposto “oppure puoi farti partire il travaglio a bomba e mandare tutti a quel paese, eh, puoi farlo!”
Nel frattempo erano tornate alla carica le due studentesse che cercavano di richiamare la mia attenzione.
“Ok, ma posso fare anche tutte e due le cose? Perché qui sono un po’ insistenti. Posso accettare le prostaglandine E ANCHE farmi partire il travaglio a bomba, così la smettono di pressarmi?”
“Ma certo che puoi!”.
Posso. Ma certo che posso.
A quel punto, anche un’ostetrica con un’espressione severa era venuta a redarguirmi sulla questione.
“Accetto” ho detto, e ho firmato il foglio. Mi hanno sdraiata sul lettino. La procedura consisteva nell’inserire un gel nella mia vagina e aspettare, attaccata ai sensori del tracciato, che facesse effetto. “Se non succede niente tra sei ore lo rifacciamo”, mi hanno detto, uscendo dalla stanza. Accanto a me c’era una ragazza, incinta di due gemelli, a cui era stata somministrato lo stesso farmaco. “Non è niente di che” mi ha detto. Non ricordo quando sia uscita, ma so che dopo un po’ mi sono ritrovata da sola. Ed è stato in quel momento, scomoda e immobilizzata, che ho parlato a Lucio: “siamo in un posto di merda, amore, non si può negare. Ma questa cosa possiamo farla insieme. Tu mettici del tuo, che io faccio la mia parte. Prima esci, prima ce ne andiamo da questo postaccio pieno di gente antipatica. Lo facciamo insieme. Ce la facciamo.” Ed ecco entrare in azione il mio mantra numero due, quello che diceva “non sei da sola, tu e il tuo bambino siete una squadra”.
Deve aver funzionato, perchè il dolore vero è arrivato. Delle onde pazzesche hanno cominciato a scuotermi, mentre io visualizzavo immagini di apertura, come nei corsi online mi avevano insegnato a fare, e ripetevo a me stessa “faccio spazio a Lucio. Faccio spazio a Lucio”. Ho passato su quel lettino almeno un’ora, ma non riuscivo a stare immobile: le contrazioni erano troppo dolorose per sopportarle senza movimento. Mi giravo, allungavo le gambe, e a volte cercavo di fotografare con il telefono il foglio che usciva dalla macchina, fuori dalla mia vista, per provare a interpretalo. Il grafico, però, non mi diceva nulla. Forse, a un certo punto, è venuta una donna a controllare, ma se n’è andata senza dire una parola. Dopo un tempo che mi è parso infinito è entrata un’ostetrica e l’ho implorata di lasciarmi alzare. Una volta in piedi ho detto “è doloroso” e lei ha risposto vaga “eh già. Ma secondo la macchina le contrazioni non sono regolari, manca ancora tanto”.
Sono tornata nella mia stanza. La madre dei gemelli non c’era. Ho provato a ricordare le posizioni che i miei corsi indicavano per rispondere meglio alle contrazioni. Nella mia testa si è formata l’immagine di una palla da fitness… ma io ero circondata solo di duro mobilio in metallo e plastica, e pavimenti in graniglia. Mi sono aggrappata al letto, poi al davanzale della finestra. Poi, intontita dal dolore, ho ricordato: ci vuole una sedia su cui sedermi al contrario. Ma le uniche sedie presenti avevano i braccioli.
Dario, a casa, mi ha scritto su Telegram “come va? Posso cenare?” e io, ripensando alle parole dell’ostetrica, ho digitato “manca tanto, mangia tranquillo”. Ma il corpo mi diceva tutt’altra cosa. Mi sono seduta sul water, al contrario, abbracciata alla vaschetta. Ricordo che era l’ora di cena, ma mi hanno portato del tè dicendo “lo beva con un po’ di zucchero, così le dà forza”. Ma io non potevo più mangiare, bere, pensare. Continuavo a richiamare alla mente le nozioni imparate nei miei corsi: ma non dovrebbero esserci delle pause tra una contrazione e l’altra? Forse ho perso il senso del tempo e non me ne accorgo? Però, non riuscivo nemmeno a sbloccare il telefono per aprire il timer tra una contrazione e l’altra. Ricordo che ho scritto all’ostetrica Elena, dicendole che le contrazioni erano sempre più toste, che non riuscivo più a invocarle perché facevano troppo male. “Se sono toste, sono quelle. Dai che Lucio si avvicina!”, mi ha risposto.
Così, a un certo punto, ho realizzato: stavo partorendo. Era quello il motivo del dolore insopportabile! Quando sei vicina alla fine, e sei sopraffatta, è perché il bimbo è in arrivo. In effetti, iniziavo a sentire anche una pressione, un bisogno di spingere. Ho suonato il campanello per chiedere assistenza e si è presentata un’ostetrica. Una donna anziana, fredda e scontrosa. “Non è nemmeno in travaglio, signora” mi ha detto, “è il primo figlio, è impossibile che stia già nascendo. Il tracciato parla chiaro. Si rilassi, si faccia una doccia e vedrà che starà meglio. È solo agitata”. Io ho fatto presente che non sarei riuscita a stare nella doccia in piedi, perché il dolore era troppo forte, così mi hanno accompagnata in un’altra stanza dove la cabina era più grande, e si poteva mettere una sedia. È buffo ma ricordo di aver avuto, non so come, la prontezza di indossare le ciabatte di gomma per non rovinare i sandali di pelle che portavo. Ma una volta nella doccia, ovviamente, le cose hanno continuato a procedere come prima. L’acqua calda non mi dava sollievo, anzi il bisogno di spingere era sempre più forte e non sapevo più come fare. Ho suonato di nuovo il campanello. “Signora, non è che può chiamare così, solo perché le fa male. Lei voleva andare al centro nascita, giusto? Lo sa che lì non la visitavano neanche? Non possiamo fare una visita così, per capriccio”. Non ricordo cosa ho risposto. Ero sottomessa, fragile, accecata dal dolore, dalla delusione e dalla paura. Ricordo invece un particolare sciocco: le mie mutande rosa a pois verdi, che erano macchiate e bagnate. Qualcuno le ha messe in un guanto di lattice e poi sono andate perse, non le ho trovate più. Quella mattina, indossandole, non avevo certo pensato che sarebbero finite così. Dopo un po’ una donna più giovane, forse anche lei ostetrica, ha aggiunto “magari però potremmo provare ad ascoltare le sensazioni della signora, visitarla per capire perché sente il premito, il bisogno di spingere”. L’altra ha acconsentito. Mi hanno messo un asciugamano sui fianchi, perchè non camminassi svestita per i corridoi. Ricordo di essermi stupita che il pudore avesse importanza in quella situazione. Ho camminato fino ad un ambulatorio, accasciandomi a metà, in ginocchio nel corridoio, per il dolore di una contrazione. La visita è stata, senza esagerazioni, più dolorosa del parto stesso. La mano dell’ostetrica che valutava la dilatazione, dentro di me, era una sofferenza tale che so aver gridato, piangendo, “ti prego, basta, basta!”.
“Oh, è a dilatazione completa” ha esclamato “ha ragione lei, sta per nascere”.
“Ok, possiamo farlo nascere qui?” ho domandato.
“No signora, questo non è il posto adatto, salga sulla barella che andiamo in sala parto”.
Erano passate circa due ore dall’inizio dell’induzione. Quella che, in teoria, avrebbe potuto non funzionare ed essere rifatta dopo sei ore. “Meno male che ho insistito”, ho detto, dopo essermi issata sulla barella con fatica. “Guardi che tanto nasceva lo stesso, eh”, mi ha risposto. Non mi ha concesso nemmeno un cenno alla possibilità di aver commesso un errore.
A metà strada ho iniziato a gridare “il cellulare! Voglio il mio cellulare! Devo chiamare il papà!”. La mia compagna di stanza, che nel frattempo era tornata, deve averlo passato alle infermiere. “E il momento. Dilatazione completa”, ho digitato. Mentre il lettino entrava in un enorme ascensore le sanitarie intimavano “non spingere”. Ma non era possibile, ovviamente, perché il corpo, superata una certa soglia, fa da solo, e non vuole sentire ragioni. Ed eccolo, il mio mantra numero tre. Il software girava, inarrestabile, nonostante la rabbia, la mancanza di rispetto, la paura. In un video avevo imparato una tecnica di respirazione per ritardare le contrazioni, da usare in casi come quello. Ma appena provavo a metterla in atto, venivo redarguita: “respiri normalmente signora!”.
In sala parto mi hanno intimato di sdraiarmi su un lettino in posizione ginecologica, con le gambe aperte su due supporti di plastica. Nonostante la scarsa lucidità, ho ricordato le indicazioni dell’OMS sulla libertà di scegliere la posizione del parto, e ho chiesto di potermi almeno sedere, o alzare. “Dopo” mi è stato risposto. Dopo. Dopo quando?
A quel punto, le contrazioni erano potenti e sembravano fare il loro lavoro. Un’ostetrica, non so dire se la stessa di prima, teneva gli occhi sul tracciato e gridava “spingi, mamma, spingi”, quando riconosceva le ondate dei miei muscoli disegnate sulla carta. Come se io non le sentissi i prima persona. Come se io non sapessi cosa fare. Ricordo una sanitaria, forse un’infermiera, che ha domandato “perché questa signora non ha l’epidurale?”.
“Spingi mamma, spingi!”
“Ma è finita la contrazione”
“Non smettere, mamma, spingi”
Ancora oggi, quando qualcuno che non conosco mi chiama “mamma”, sento l’eco di quella voce. Reagiva con stizza evidente quando la contrazione finiva e io mi concedevo una pausa.
“Non ce la faccio” ho detto a un certo punto, come fanno tutte, come è naturale che sia. E a quel punto una donna, che io ricordo assurdamente calma seduta a un tavolino con un registro davanti e una penna in mano (immagino per registrare l’ora della nascita) mi ha apostrofata “ah, signora, non lo sa che c’è chi ci sta ore nella condizione in cui si trova lei ora?”. Io non ho risposto. Non avevo più parole, solo rabbia, umiliazione e dolore.
Ricordo, nella confusione, che l’ostetrica ha provato, con le dita, ad allargare il canale vaginale per aiutare Lucio a passare, provocandomi un dolore incredibile. Sono scivolata verso l’alto sul lettino, scalciando, per sfuggirle. “Signora cosa fa? Dove vuole andare?”.
Ricordo bene anche l’ultima spinta, perché ho forzato la mano, ho continuato a tendere i muscoli anche se la contrazione era finita, con rabbia, con l’unico proposito di mettere a tacere quella voce insopportabile che non cessava di incitarmi senza rispetto. Ricordo che quando mi hanno poggiato il bimbo sul petto e ho trasalito pensando “cos’è questo?”. Non me l’aspettavo. Avevo totalmente dimenticato quale fosse l’obiettivo di tutta quella follia. L’unico traguardo era sopravvivere al dolore e alla paura.
Alle 22.19, era nato. Venti minuti dopo l’entrata in sala parto. A poco più di due ore dal momento dell’induzione.
“Visto che non c’è il papà, vuole tagliare il cordone ombelicale?”. “No, fate voi” sono riuscita a dire. Chissà se hanno aspettato abbastanza prima di tagliarlo. Prima del parto mi era sembrata una priorità, ma in quel momento non ero più in grado di pensarci. La placenta è uscita, ma lo ricordo vagamente. Avrei tanto voluto vederla, anche solo per curiosità, ma mi è passato di mente.
Ovviamente, mi ero lacerata. Mi ha cucita una ragazza, un’altra praticante, mentre qualcuno le diceva “no, non così, stai sbagliando. Aspetta, ti faccio vedere io”. Può sembrare assurdo, ma ricordo benissimo il dolore di quei punti, e nel ricordo è fastidiosissimo e insensato, forse di più di quello del travaglio intero.
Nel frattempo, è entrato Dario. “Sta bene?” gli hanno chiesto. “Chi?” ha risposto lui. Immagino volessero verificare se fosse abbastanza in sè da tenere il bimbo in braccio. L’ha preso, si è seduto vicino a me, ancora sotto ago e filo, e solo in quel momento l’ho VISTO. Lucio era lì. Era nato davvero. Era vestito con una tutina bianca e azzurra che non gli avevo portato io. A quanto pare nessuno aveva pensato alla questione del pelle a pelle e a quanto a detta di tutti fosse fondamentale per creare il nostro legame.
“Perché questa signora non ha le mutande?” ha ridacchiato un’infermiera, mettendomi un pannolone. Ho ripensato ai miei slip, perduti chi sa dove. Alla mia valigia con i vestiti, al fatto che nessuno sarebbe sceso a prendermi quello che mi serviva, perché semplicemente non era importante. Io non lo ero.
Dopo un po’ Dario mi ha passato Lucio, un cucciolo con la testa appuntita e la pelle arrossata, e ho scoperto il petto per farcelo appoggiare. Gli ho sbottonato leggermente la tutina per sentirlo meglio. Dario l’ha guidato sul mio seno e lui miracolosamente, senza istruzioni, senza essere nudo, senza condizioni favorevoli intorno, senza nessuna bolla magica di amore e serenità… lui ha cominciato a ciucciare. “Sembra attaccato bene”, ha detto suo papà. E per un attimo tutto è sembrato andare al suo posto, come doveva essere davvero. Ho scattato qualche foto a quel momento. Ho usato l’iPhone con la modalità ritratto, e ricordo di aver sorriso scoprendomi ancora capace di fare un gesto ordinario come fotografare.
Ma è durato poco, troppo poco. Dopo un’ora e mezza dalla nascita Lucio era in una culletta che si dirigeva verso il nido “lo portiamo lì ad aspettare il pediatra, glielo riportiamo domattina”, e a Dario veniva intimato di raggiungere l’uscita del reparto. “Signora, si copra un pochino”, mi hanno rimproverata guardando il mio seno nudo, mentre mi spingevano, sul lettino, verso la mia stanza.
“Se deve fare la pipì suoni il campanello, potrebbe svenire”. E sono rimasta sola, con un ronzio nella testa. Ho mandato le foto che avevo scattato a un paio di amiche. “Ma è vero?” mi ha risposto una, incredula. Eh già. È vero.
Non ho dormito. Ho bevuto un tè in una scodella da minestra di plastica. Ho fissato il soffitto cercando di rielaborare quello che era successo. Forse mi sono assopita. Non so nemmeno se avrei voluto Lucio con me, in quel momento. Ho suonato il campanello. Sono andata in bagno e i punti mi hanno fatto meno male del previsto.
La mattina dopo l’ho rivisto, il mio bimbo, me l’hanno portato alle sei. Il nome sulla culla era scritto sbagliato, i vestiti non erano di nuovo i miei. Aveva un filo azzurro di lana sul petto, fermato con lo scotch, che reggeva un cartoncino con il nome Lucio.
Ho iniziato, goffamente, a provare ad allattarlo. Lui si addormentava, io gli solleticavo i piedi e allora ciucciava per qualche minuto. Facevo dei video e li inviavo all’ostetrica Elena, che mi consigliava come procedere. “Devi farcela, capisci?” gli dicevo. “Se non perdi troppo peso possiamo finalmente scappare da qui”.
Sono venute le puericultrici del nido a spiegarmi come vestirlo e cambiarlo “gli metta body e calzini signora. Guardi bene come lo cambio perché poi lo farà da sola”. Lui era piccolo, portava le tutine taglia zero che mi aveva regalato un’amica il cui figlio era nato troppo grosso per indossarle.
In quei tre giorni, ho passeggiato spesso nel corridoio (e so che sono fortunata, perchè non è stato concesso a tutti in tempo di Covid). Guardavo il mio corpo sotto la camicia da notte e mi sembrava incredibilmente vuoto e magro, senza pancia e con le caviglie sgonfie.
Dario non poteva entrare, ma poteva portarmi acqua e darmi un abbraccio veloce nel corridoio, davanti agli ascensori. Un paio di volte è venuta perfino mia madre, con la stessa scusa, e ho portato fuori di straforo la culletta per presentarle il nipote.
Andava tutto bene. Ed è quello che scrivevo come risposta a tutti i messaggi di auguri. Eppure, tra quelle pareti azzurre, tra le traversine usa e getta stese sul letto e i pasti preconfezionati in vaschette di plastica, mi sembrava che mancasse qualcosa. Un abbraccio. Un pianto. Un’amica che mi portasse una brioche al cioccolato o un cibo sfizioso vietato in gravidanza. La risata davanti a un regalo di cattivo gusto recato da qualche zia. Qualcosa, qualsiasi cosa che sbloccasse il groviglio di emozioni che avevo dentro, che mi aiutasse a iniziare a sentire la paura, la tristezza, la rabbia l’umiliazione provate durante il travaglio, e anche la gioia, la sorpresa, l’amore nuovo e rivoluzionario rappresentato quella piccola perfetta persona che tenevo tra le braccia.
E invece vivevo in questo limbo sospeso. Lucio ciucciava un po’, dormiva un po’. Ha capito presto che le braccia erano più confortevoli della culla.
Le ostetriche che si affacciavano dalla porta avevano facce sempre diverse e indicazioni incoerenti, spesso trasmesse in fretta e con stizza.
“Ma perché gli ha messo i calzini?”
“Me l’hanno detto le puericultrici”
“Glieli tolga, siamo a Luglio”
—
“Perché lo ha spogliato?”
“Mi hanno consigliato così per allattarlo”
“Lo rivesta, i neonati hanno freddo”
—
Ricordo bene che a un certo punto Lucio si è addormentato accoccolato sul mio petto, e io mi sono appoggiata sui cuscini e mi sono sentita, per un attimo solo, capace di calmarlo. In pace.
“Signora non stia così eh? Che poi si rilassa troppo e il bimbo le cade. Non ha idea di quanti ne raccogliamo da per terra”
“Scusi, non lo sapevo”
“E non lo allatti nel letto, mi raccomando, altrimenti si addormenta”
“E dove mi devo mettere?”
“Sulla sedia, signora”
Ma Lucio non era più disposto a dormire senza contatto (e non lo sarebbe stato per i 10 mesi successivi). Dopo due ore sulla sedia, altra faccia che si sporge dalla porta:
“Signora cosa fa li? Non vorrà mica passare tutta la notte su una sedia”
“Mi hanno detto di fare così”
“Venga qui, lo metta accanto a sé sul letto”
“Ma non ci sono sponde, ho paura che cada”
“Avvicini la culla e la usi come barriera, i neonati si muovono poco”.
Ho passato due notti così. Forse in alcuni minuti ho anche dormito, ma di un sonno leggerissimo e inquieto che non mi avrebbe più lasciata per moltissimi mesi. Seguendo le indicazioni della mia ostetrica Elena, ogni tre ore cercavo di allattarlo. L’ospedale mi aveva fornito una tabella dove registrare numero e durata delle poppate. Ogni mia cellula era volta a cercare di riempire il più possibile quel foglio. Ogni minuto di allattamento era un minuscolo passo verso le dimissioni, verso la libertà.
Ricordo solo una persona che mi ha aiutata. Non saprei riconoscerla, era un’ostetrica tra tante, ma ha messo un dito in bocca a Lucio e me l’ha attaccato al seno quando la lingua era nella posizione giusta. E soprattutto mi ha guardata in faccia e mi ha sorriso, per la prima volta dopo giorni che nessuno lo faceva.
In condizioni normali, forse, avrei preteso dalle altre di essere trattata con rispetto, ma ero debole come un animale ferito e l’unico istinto era quello di farmi notare il meno possibile, come se il mio comportamento potesse garantirmi una sorta di rilascio “per buona condotta”.
Lucio nel frattempo mi ha ascoltata ancora una volta, e ce l’ha fatta, e ha iniziato ad attaccarsi al seno spesso e con efficacia. So di essere stata fortunata. A volte mi sembra di essere una delle poche madri al mondo che ha iniziato ad allattare facilmente, senza dolore.
All’inizio del terzo giorno, finalmente, è arrivato il permesso per le dimissioni. Mi sono legata i capelli, ho rimpiazzato la camicia da notte con un vestito. Nella stanza davanti alla mia c’era una giovanissima ragazza rom, che aveva partorito la mia stessa notte. Alle dimissioni era truccata e aveva una decorazione bellissima sulla fronte. “Mia suocera mi ha detto che mi terrà la bambina e finalmente potrò dormire”, mi ha rivelato con un sorriso. Due giorni prima, era in travaglio mentre lo ero anch’io, e avevo sentito le ostetriche rispondere al suo pianto con parole di disprezzo: “sei adulta ora, smettila di lamentarti, stai per diventare madre”. Il suo dolore riecheggerà sempre nel mio, da qualche parte nel profondo.
Così, sono tornata a casa. E non ho avuto mai, per mesi, la forza di spiegare quello che mi era successo, quello che avevo provato. Tutti erano giustamente entusiasti della presenza di Lucio e io non riuscivo a tirare fuori la voce e parlare della mia esperienza. Mi sentivo addirittura un’ingrata, a lamentarmi di un parto naturale, svoltosi in due ore, con un allattamento avviato facilmente e una ripresa fisica tutto sommato veloce.
Sono fiera di avercela fatta. Sono profondamente orgogliosa di quella parte di me che non ha ceduto alla paura, che non si è chiusa, che è riuscita a partorire naturalmente nonostante il luogo ostile, la paura, la solitudine. Sono immensamente grata al mio Lucio, che mi ha ascoltata e si è fidato di me così tanto, dal primo minuto, e della squadra imbattibile che io e lui siamo stati.
Ma per farcela ho consumato tutte le energie che avevo a disposizione. E per mesi non sono stata in grado di recuperarle. Il pensiero del parto mi ha attivato emozioni fortissime per più di un anno, e ancora oggi, a due anni e mezzo di distanza, non riesco completamente ad affrontarle.
Il puerperio tra punti, perdite di sangue, allattamento, sonno, pianti, e il caldo opprimente dell’estate, è stato faticosissimo e a tratti ho davvero pensato di non farcela. Dopo l’estate, sono ricominciati i lockdown e altri mesi di fatica e impossibilità di coltivare rapporti con le altre persone. Per l’intero primo anno di Lucio sono stata ossessivamente consumata dalla paura di non essere in grado di occuparmi di lui, di aver sbagliato a prendermi una responsabilità così grande. E sono certa che la radice di molti di questi pensieri sia proprio lì, in quell’ospedale, nelle risposte colme di disprezzo e indifferenza che ho ricevuto in maniera ininterrotta ed esclusiva per tre giorni, nel momento di massima vulnerabilità della mia vita.
Mi sono esercitata, poi a immaginare cosa sarebbe successo se avessi ricevuto, durante la nascita, delle risposte empatiche e educate. Le stesse identiche frasi, senza nemmeno stravolgerne il senso, si sarebbero potute dire in un altro modo. Scrivo qui tutti gli esempi che mi vengono in mente, ad uso di ostetriche e infermiere che dovessero mai incontrare questo scritto e leggere le mie parole:
“Signora, potrebbe essere necessaria un’induzione, per garantire la salute del suo bimbo. Naturalmente è una sua libera scelta e le lasciamo tutto il tempo di cui ha bisogno per valutare. Se ha domande da farci, siamo qui”
“Secondo il tracciato le contrazioni non sono ancora regolari, ma magari facciamo qualche altro controllo e proviamo a monitorarle insieme, visto che lei ha la sensazione che siano molto forti”
“È raro che, per un primo figlio, il travaglio proceda così spedito, ma chissà, magari questo bimbo ha proprio fretta di nascere. Proviamo a capirlo insieme”
“Per verificare che davvero Lucio stia nascendo le devo fare una visita per valutare la dilatazione. È una procedura un po’ dolorosa, e vorrei evitarla, ma credo sia necessaria per capire se sta andando tutto bene. Posso procedere?”
“Si sente scomoda in questa posizione? Proviamo a trovarne una in cui si trova bene, e che permetta a infermiere e ostetriche di continuare a monitorare il tracciato”
“Come sta bene il neonato sul suo petto eh? Le consiglio di fare attenzione però, perché questa posizione può essere pericolosa, se si addormenta. Magari posso stare qualche minuto qui vicino a lei, per permetterle di riposarsi un po’, e poi proviamo a posarlo nella culla senza svegliarlo”
Di tutta questa esperienza, mi rimangono ovviamente molte cose. Istintivamente mi verrebbe da dividerle in “buone” e “cattive”, ma in questi mesi ho imparato, attraverso mindfulness e psicoterapia, che in molti casi è meglio esercitare la sospensione del giudizio. Non esiste, forse, un parto “positivo”, così come non esiste un parto “negativo”. Esiste il parto. Il mio parto. Il parto di ciascuna. Ogni nascita va, semplicemente, come può andare.
Io però posso decidere cosa coltivare, cosa abbracciare e conservare nel profondo. Quindi tengo i miei tre mantra, il bagaglio di parole che mi ha salvata nel momento del bisogno. Tengo quel “no cazzo, almeno proviamoci”, detto a me stessa quando stavo per cedere. Tengo la voce dell’ostetrica Elena che mi dice “ma certo che puoi!” con fiducia totale e incrollabile verso le mie capacità. Tengo la connessione profonda con Lucio, che ha seguito la mia voce anche in mezzo a un intollerabile, irrispettoso rumore. Tengo il momento in sala parto con Dario, il nostro primo momento in tre fuori dalla pancia. Tengo il giorno in cui le ostetriche, a casa, hanno inscenato la nascita con una bacinella di acqua tiepida e la voce di Norah Jones in sottofondo. Lucio ama ancora quella musica, che è l’unica capace di calmarlo e addormentarlo in qualsiasi situazione. Tengo la mattina in cui mi sono detta “basta, ho sofferto abbastanza” e ho cercato l’aiuto di una doula, Beatrice, per rielaborare insieme il parto, e poi quello della psicologa per tornare a mettere insieme i pezzi di me stessa. Tengo il momento in cui ho fatto visitare il mio pavimento pelvico, ancora dolorante, e lentamente le tensioni e le offese che avevo ricevuto hanno iniziato a sciogliersi anche nei muscoli, oltre che nel cuore.
Ovviamente ci sono tante persone non citate in questa storia, ma fondamentali. Mia mamma Patrizia, che mi è stata vicina fisicamente e moralmente e lo fa ancora, quotidianamente. Le mie amiche mamme online, da cui ho avuto supporto e informazioni fondamentali. Le amiche che hanno partorito dopo di me, con cui abbiamo potuto raccontare i nostri traumi infinite volte, per renderli un po’ più facili da affrontare. I parenti di Dario, che sono la famiglia chiassosa e numerosa che chiunque vorrebbe. Il mio papà, che al momento della nascita non era più sulla terra da diversi anni, ma in qualche vibrazione, in qualche atomo, in qualche respiro c’è stato di certo.
Questa è anche, almeno in parte, una storia di denuncia, perché vorrei profondamente con tutto il mio cuore che le madri, in ospedale, avessero diritto a un’assistenza efficiente, empatica e umana. Inoltre auspico la sospensione delle superate norme anti-covid che ancora non permettono di ricevere visite e supporto di persone di fiducia durante il parto e la degenza. Su questo trovate una petizione apposita promossa dall’associazione Mama Chat, che vi invito a firmare.
Grazie ♥
Mi chiamo Marta Pavia, sui social mi trovate @zuccaviolina. Di lavoro mi occupo di comunicazione visiva online. Il mio sito web è https://martapavia.it/